La leggenda

Storia e mito della locanda

In Toscana tutto quello che ci circonda porta i segni del nostro passato, ci ricorda avvenimenti, personaggi, fatti o semplici leggende. La storia di questa Locanda ha qualcosa di speciale che va oltre la suggestione popolare, lo testimoniano vari documenti storici che descrivono, oltre alla nascita di queste mura, tanti piccoli eventi riferiti a persone che di qui sono passate e che hanno legato la loro vita a questo luogo così particolare.

Questa casa in origine era una torre di avvistamento a protezione della Città ai tempi in cui San Gimignano era libero Comune. Avamposto strategico situato sulla sommità di una collina a pochi metri dall'antica Via Francigena, vicinissima alla Città, era presidiato da una guarnigione di soldati. Con il tempo la struttura venne ingrandita, alcuni locali vennero adibiti a "Pellegrinaio" (antico nome delle locande) dove i frati dell'Ordine degli Olivetani della vicina Abbazia di Monte Oliveto Minore prestavano assistenza e ospitalità ai pellegrini che percorrevano la vicina Via Francigena.

A tal proposito si narra di alcuni eventi prodigiosi che iniziarono a verificarsi in questo luogo fin dal XIII secolo: dopo qualche giorno di sosta alla Locanda, grazie al clima mite, al buon vino di queste parti, all'olio degli olivi centenari e alle amorevoli cure dei frati, i pellegrini riprendevano il cammino con più vigore, in molti casi guariti da gravi malattie e infezioni. Con l'andare del tempo la fama del posto si estese tra i viandanti dell'epoca tanto che divenne ben presto una meta molto conosciuta dove si andava per ritrovare energia e salute; furono alcuni eventi particolari, con risvolti tutt'oggi inspiegabili, che nel tempo andarono ad accrescere il mito della Locanda di San Gimignano. Si parla di una storia che ebbe iniziò nei primi anni del 1600 e che ha raggiunto il suo epilogo in tempi recenti

La locanda Viani

Tra i tanti personaggi famosi che hanno soggiornato tra queste mura si racconta di un giovane pittore olandese, Gerard (Gerrit) van Honthorst, conosciuto in seguito come Gherardo delle Notti per le sue scene ambientate in notturni e rischiarate da un'unica fonte di luce. Cresciuto alla scuola di Abraham Bloemaert, lasciò Utrecht nel 1609 per venire a Roma a conoscere l'arte italiana del periodo e in particolare la pittura di Michelangelo Merisi, detto il "Caravaggio".
Durante il soggiorno romano venne in contatto con vari e prestigiosi committenti tra i quali il marchese Vincenzo Giustiniani, grande mecenate del tempo, che lo introdusse presso l'aristocrazia pontificia dove ebbe modo di conoscere Piero Gicciardini, ambasciatore di Cosimo II de'Medici alla corte dei papi, dal quale ebbe l'incarico di realizzare un grande dipinto per la cappella di Santa Felicita in Firenze, di cui la nobile famiglia era patrona.
In quel periodo Gherardo, nonostante i successi, non attraversava un momento felice: oltre all'ossessione per quella luce che non riusciva a trovare anima nei suoi dipinti e il peso per la lontananza dalla famiglia (all'epoca aveva poco più di vent'anni ), una vicenda dolorosa aveva turbato i suoi sentimenti. Aveva conosciuto una giovane pittrice (caso molto raro in un'epoca in cui alle donne era concesso solo di sposarsi e far figli) di nome Artemisia, figlia di Orazio Gentileschi, famoso artista toscano trapiantato a Roma, amico e compagno di bravate del Caravaggio.
Fin da subito rimase affascinato dall'estro e dalla selvaggia bellezza di quella ragazza. L'aveva incontrata più volte e in cuor suo cominciava a nutrire per lei un'affettuosa attenzione. Di lì a poco quella tenera amicizia doveva lasciare il passo ad un evento drammatico.
Nel 1612 il pittore Agostino Tassi, che a partire dall'anno precedente era impegnato con il Gentileschi nella decorazione del Casino delle muse di palazzo Rospigliosi-Pallavicini a Roma, venne denunciato per stupro ai danni della quindicenne Artemisia.

Il clamore del tragico fatto, il rifiuto del Tassi di fronte ad un matrimonio riparatore e il processo che ne seguì indusse Orazio Gentileschi a isolare la figlia per sottrarla allo scandalo: al processo Artemisia continuò a confermare le accuse di stupro malgrado l'umiliazione di dover affermare la perduta verginità, e per l'epoca non essere sposata e non essere vergine corrispondeva in qualche modo ad una condanna sociale ). Dopo l'accaduto Gherardo non ebbe modo di rivedere Artemisia; rimase sconvolto e avvilito, e il suo equilibrio già fragile ne risentì. Trascorreva giornate inconcludenti e nottate tormentate da visioni drammatiche dove spesso appariva, come lui stesso raccontò, il volto di una Madonna orribilmente sfregiato, contemplativa e silente sopra una luce pallida, quasi malata. Per cercare una tregua ai suoi tormenti aveva deciso di recarsi a Firenze per visitare il luogo dove la famiglia Guicciardini intendeva collocare l'opera commissionatagli, senza peraltro avere un'idea precisa di cosa avrebbe in seguito realizzato. Visitando la cappella di Santa Felicita, ebbe modo di contemplare le opere di Jacopo Carucci detto il Pontormo, che vi aveva lavorato per quasi tre anni con l'aiuto del giovane Agnolo Bronzino. Raccontò che all'uscita della chiesa un povero vecchio seduto nella piazza antistante al quale aveva dato un obolo gli disse: "ogni opra ha i'su loco, e ogni homo i'su fato". Gherardo non capì, pensò a una frase stravagante detta per ringraziare, solo oggi sappiamo quelle parole dovevano essere profetiche.
Dopo il breve soggiorno fiorentino, tornando verso Roma, Gherardo si fermò alla Locanda di San Gimignano. In cuor suo sperava che in quel luogo si operasse l'ennesimo prodigio e che il suo spirito tormentato potesse ritrovare un po' di quiete e la giusta ispirazione per realizzare il dipinto da consegnare.
Qui il destino, come in un canovaccio già scritto, incominciò a giocare la sua parte: di lì a qualche giorno arrivò alla Locanda una carrozza proveniente da Roma, che trasportava l'artista fiorentino Pierantonio Stiattesi con la sua giovane moglie. Erano diretti a Firenze, dove sarebbero andati ad abitare, e si erano dovuti fermare perché la donna durante il viaggio si era sentita male e aveva urgente bisogno di cure. Le cronache del tempo non parlano di cosa provò Gherardo quando dalla carrozza vide scendere Artemisia in braccio al marito, ma possiamo immaginare lo stupore e la sorpresa. Quando era partito da Roma per andare a Firenze ancora non sapeva che lei si era sposata con lo Stiattesi. Fu un matrimonio di comodo combinato velocemente per togliere la giovane da ogni maldicenza. Avvenne il 29 novembre 1612 (una settimana dopo che il Tassi fosse condannato per stupro) nella chiesa di Santo Spirito in Sassia. Gli sposi lasciarono Roma dopo pochi giorni per iniziare una nuova vita tra le mura fiorentine, lontano da giudizi e illazioni.
Quando si fermarono alla Locanda le condizioni della giovane erano abbastanza critiche e così la sosta si prolungò per alcuni giorni. Arrivata con il suo bagaglio di dolore e di rabbia Artemisia, lasciandosi andare alle amorevoli cure e all'atmosfera particolare di questo luogo, riuscì a placare in parte le sofferenze per la dignità offesa e con il migliorare delle condizioni fisiche, tornò la voglia di vivere e di parlare. Trovò il modo di incontrare Gherardo e raccontare quegli ultimi eventi, parlarono dell'improvviso matrimonio a cui era stata costretta, l'angoscia per l'incertezza del suo futuro ed infine una confessione, bella e terribile come un sogno irrealizzabile destinata a lasciare una traccia indelebile nell'animo di Gherardo: il desiderio di un figlio che potesse somigliare a lui per averlo con se tutta la vita.


Dopo questi giorni trascorsi alla Locanda Artemisia ripartì per Firenze con il marito dove rimasero ad abitare fino al 1621. Ebbe una figlia di nome Prudenzia ( in ricorda della madre morta prematuramente). La ritrovata voglia di vivere si manifestò attraverso la luce dei suoi dipinti, che le meritarono l'accostamento a Michelangelo Merisi detto il Caravaggio.
A Firenze conquistò fama e notorietà, fu la prima donna a far parte dell'Accademia del Disegno patrocinata dalla famiglia Medici e i suoi quadri attualmente fanno parte del patrimoni della galleria degli Uffizi. Dopo questo incontro, Gherardo tornò a Roma con la tristezza nel cuore e la consapevolezza che l'opera da realizzare sarebbe stata l'ultimo regalo per Artemisia. Parlando con Giulio Mancini, medico personale del Papa, grande collezionista e amico di molti pittori presenti a Roma in quel periodo, gli raccontò dell'incontro avuto alla Locanda di San Gimignano e del conseguente desiderio di realizzare un grande dipinto sul tema della Natività. Gli confidò che le sue abituali visioni iniziavano ad avere contorni più chiari: al centro della scena il Cristo appena nato era la luce stessa che illuminava l'ambiente e i personaggi a Lui intorno, il volto della Madonna non aveva orribili sfregi ma sembianze a lui care e addirittura una notte quel volto alzò gli occhi e parlò: la luce vitale che andrai a rappresentare un giorno si sporcherà per mano degli uomini ma non si spengerà mai, rimarrà come una specie di monito morale e prova lampante della duplice natura umana che è distruttiva, ma anche amorosamente portata a risanare le piaghe; anche quelle che da sola si infligge.
L'esecuzione del dipinto iniziò e proseguì con ferma determinazione, le varie fasi sono descritte mirabilmente da Giulio Mancini nel suo libro composto intorno al 1620. L'illustre intenditore del tempo cerca di guidarci, quasi in presa diretta, nei misteri dell'opera: " Gherardo (...) adesso conduce una Natività di Nostro Signore che le figure gli piglian il lume da Cristo nato...".
Nella descrizione del dipinto il Mancini si sofferma ad illustrare la fonte della luce: il bambino deposto sulla paglia illumina la notte in cui sono immersi i personaggi, riflettendosi sui volti dei due angeli e della Madonna che scosta il velo dal Bambino, sul quale si china con affetto e venerazione. E' attraverso lo sguardo adorante della Madonna che offre Gesù alla vista dell'universo, che noi, spettatori della scena, comprendiamo la potenza e la bellezza dell'accaduto.
Non è escluso che l'Adorazione dei pastori, questo fu il titolo dato al dipinto, sia l'ultima opera eseguita a Roma da Gherardo prima della sua improvvisa partenza per la natia Utrecht. Esiste un carteggio in cui Piero Guicciardini, nel 1620, dà ordine ai banchieri di provvedere al saldo del quadro e questa è l'ultima data certa della presenza di Gherardo a Roma.

Erano passati quasi due secoli dal collocamento dell'opera nella cappella di Santa Felicita in Firenze quando, nel 1836, l'allora Direttore degli Uffizi Ramirez di Montalvo iniziò la richiesta di acquisizione alla Galleria dell'Adorazione dei pastori di Gherado delle Notti. Esiste una documentazione che certifica i passi compiuti dal Responsabile dell'Amministrazione granducale presso la famiglia Guicciardini. Dalla metà dell'ottocento il grande quadro venne trasferito, dietro lauto riconoscimento, alla proprietà pubblica della Galleria degli Uffizi dove rimase fino al 1993, di fronte alla finestra che dà su via dei Georgofili,. E' qui, in questa strada, che un disegno scellerato della mafia portò distruzione, lutto e dolore; il vento furioso scatenato da un'esplosione s'abbatté sulla grande tela distruggendola quasi totalmente. Era la notte del 27 Maggio del 1993. Il quadro, la mattina dopo, fu disteso, con la delicatezza che tocca alle fragili spoglie di un cadavere e fu immediatamente velinato. Dallo schermo velato trapelavano, anche se a fatica, forme indistinte e tracce di cromia. Sembrò dovere morale porre ogni sforzo al recupero di quello che restava per serbare memoria, per chi verrà dopo di noi, di quei tragici fatti (" quella luce vitale che andrai a rappresentare un giorno si sporcherà per mano degli uomini ma non si spengerà mai, rimarrà come una specie di monito morale e prova lampante della duplice natura umana che è distruttiva, ma anche amorosamente portata a risanare le piaghe; anche quelle che da sola si infligge." ).
Nei giorni e nei mesi che seguirono, restauratori di differenti generazioni misero mano ai lavori per il recupero del dipinto danneggiato. Una volta intravista la possibilità d'un recupero, anche se parziale, fu unanime l'avviso che la sua futura collocazione non avrebbe potuto essere che nel luogo suo originario: la cappella maggiore di Santa Felicita ( "Ogni opra ha i'su loco, e ogni homo i'su fato"), dove a volerla fu Piero Guicciardini che dette credito ad un giovane pittore olandese che fece delle sue visioni un capolavoro profetico e un pensiero d'amore.

Questo è uno dei tanti racconti che fanno parte del mito della Locanda così come fu raccontato alla famiglia Viani il giorno dell'acquisto di questa casa nel 1968. Chi è passato di qui ha lasciato inevitabilmente qualcosa di sé, così come questo luogo ha talvolta operato piccoli prodigi nella vita di chi lo ha frequentato. L'idea della Locanda è nata proprio dalla voglia di continuare la secolare tradizione di questa casa, che ha accolto e continua ad accogliere con devozione chiunque voglia sostare e approfittare della quiete di questo angolo di Paradiso.