Tra i tanti personaggi famosi che hanno soggiornato tra queste mura si racconta
di un giovane pittore olandese, Gerard (Gerrit) van Honthorst, conosciuto
in seguito come Gherardo delle Notti per le sue scene ambientate in notturni
e rischiarate da un'unica fonte di luce. Cresciuto alla scuola di Abraham
Bloemaert, lasciò Utrecht nel 1609 per venire a Roma a conoscere l'arte
italiana del periodo e in particolare la pittura di Michelangelo Merisi,
detto il "Caravaggio".
Durante il soggiorno romano venne in contatto con vari e prestigiosi committenti
tra i quali il marchese Vincenzo Giustiniani, grande mecenate del tempo,
che lo introdusse presso l'aristocrazia pontificia dove ebbe modo di conoscere
Piero Gicciardini, ambasciatore di Cosimo II de'Medici alla corte dei
papi, dal quale ebbe l'incarico di realizzare un grande dipinto per la
cappella di Santa Felicita in Firenze, di cui la nobile famiglia era patrona.
In quel periodo Gherardo, nonostante i successi, non attraversava un momento
felice: oltre all'ossessione per quella luce che non riusciva a trovare
anima nei suoi dipinti e il peso per la lontananza dalla famiglia (all'epoca
aveva poco più di vent'anni ), una vicenda dolorosa aveva turbato i suoi
sentimenti. Aveva conosciuto una giovane pittrice (caso molto raro in
un'epoca in cui alle donne era concesso solo di sposarsi e far figli)
di nome Artemisia, figlia di Orazio Gentileschi, famoso artista toscano
trapiantato a Roma, amico e compagno di bravate del Caravaggio.
Fin da subito rimase affascinato dall'estro e dalla selvaggia bellezza
di quella ragazza. L'aveva incontrata più volte e in cuor suo cominciava
a nutrire per lei un'affettuosa attenzione. Di lì a poco quella tenera
amicizia doveva lasciare il passo ad un evento drammatico.
Nel 1612 il pittore Agostino Tassi, che a partire dall'anno precedente
era impegnato con il Gentileschi nella decorazione del Casino delle muse
di palazzo Rospigliosi-Pallavicini a Roma, venne denunciato per stupro
ai danni della quindicenne Artemisia.
Il clamore del tragico fatto, il rifiuto del Tassi di fronte ad un matrimonio
riparatore e il processo che ne seguì indusse Orazio Gentileschi a isolare
la figlia per sottrarla allo scandalo: al processo Artemisia continuò
a confermare le accuse di stupro malgrado l'umiliazione di dover affermare
la perduta verginità, e per l'epoca non essere sposata e non essere vergine
corrispondeva in qualche modo ad una condanna sociale ). Dopo l'accaduto
Gherardo non ebbe modo di rivedere Artemisia; rimase sconvolto e avvilito,
e il suo equilibrio già fragile ne risentì. Trascorreva giornate inconcludenti
e nottate tormentate da visioni drammatiche dove spesso appariva, come
lui stesso raccontò, il volto di una Madonna orribilmente sfregiato, contemplativa
e silente sopra una luce pallida, quasi malata. Per cercare una tregua
ai suoi tormenti aveva deciso di recarsi a Firenze per visitare il luogo
dove la famiglia Guicciardini intendeva collocare l'opera commissionatagli,
senza peraltro avere un'idea precisa di cosa avrebbe in seguito realizzato.
Visitando la cappella di Santa Felicita, ebbe modo di contemplare le opere
di Jacopo Carucci detto il Pontormo, che vi aveva lavorato per quasi tre
anni con l'aiuto del giovane Agnolo Bronzino. Raccontò che all'uscita
della chiesa un povero vecchio seduto nella piazza antistante al quale
aveva dato un obolo gli disse: "ogni opra ha i'su loco, e ogni homo
i'su fato". Gherardo non capì, pensò a una frase stravagante detta
per ringraziare, solo oggi sappiamo quelle parole dovevano essere profetiche.
Dopo il breve soggiorno fiorentino, tornando verso Roma, Gherardo si fermò
alla Locanda di San Gimignano. In cuor suo sperava che in quel luogo si
operasse l'ennesimo prodigio e che il suo spirito tormentato potesse ritrovare
un po' di quiete e la giusta ispirazione per realizzare il dipinto da
consegnare.
Qui il destino, come in un canovaccio già scritto, incominciò a giocare
la sua parte: di lì a qualche giorno arrivò alla Locanda una carrozza
proveniente da Roma, che trasportava l'artista fiorentino Pierantonio
Stiattesi con la sua giovane moglie. Erano diretti a Firenze, dove sarebbero
andati ad abitare, e si erano dovuti fermare perché la donna durante il
viaggio si era sentita male e aveva urgente bisogno di cure. Le cronache
del tempo non parlano di cosa provò Gherardo quando dalla carrozza vide
scendere Artemisia in braccio al marito, ma possiamo immaginare lo stupore
e la sorpresa. Quando era partito da Roma per andare a Firenze ancora
non sapeva che lei si era sposata con lo Stiattesi. Fu un matrimonio di
comodo combinato velocemente per togliere la giovane da ogni maldicenza.
Avvenne il 29 novembre 1612 (una settimana dopo che il Tassi fosse condannato
per stupro) nella chiesa di Santo Spirito in Sassia. Gli sposi lasciarono
Roma dopo pochi giorni per iniziare una nuova vita tra le mura fiorentine,
lontano da giudizi e illazioni.
Quando si fermarono alla Locanda le condizioni della giovane erano abbastanza
critiche e così la sosta si prolungò per alcuni giorni. Arrivata con il
suo bagaglio di dolore e di rabbia Artemisia, lasciandosi andare alle
amorevoli cure e all'atmosfera particolare di questo luogo, riuscì a placare
in parte le sofferenze per la dignità offesa e con il migliorare delle
condizioni fisiche, tornò la voglia di vivere e di parlare. Trovò il modo
di incontrare Gherardo e raccontare quegli ultimi eventi, parlarono dell'improvviso
matrimonio a cui era stata costretta, l'angoscia per l'incertezza del
suo futuro ed infine una confessione, bella e terribile come un sogno
irrealizzabile destinata a lasciare una traccia indelebile nell'animo
di Gherardo: il desiderio di un figlio che potesse somigliare a lui per
averlo con se tutta la vita.
Dopo questi giorni trascorsi alla Locanda Artemisia ripartì per Firenze con
il marito dove rimasero ad abitare fino al 1621. Ebbe una figlia di nome
Prudenzia ( in ricorda della madre morta prematuramente). La ritrovata
voglia di vivere si manifestò attraverso la luce dei suoi dipinti, che
le meritarono l'accostamento a Michelangelo Merisi detto il Caravaggio.
A Firenze conquistò fama e notorietà, fu la prima donna a far parte dell'Accademia
del Disegno patrocinata dalla famiglia Medici e i suoi quadri attualmente
fanno parte del patrimoni della galleria degli Uffizi. Dopo questo incontro,
Gherardo tornò a Roma con la tristezza nel cuore e la consapevolezza che
l'opera da realizzare sarebbe stata l'ultimo regalo per Artemisia. Parlando
con Giulio Mancini, medico personale del Papa, grande collezionista e
amico di molti pittori presenti a Roma in quel periodo, gli raccontò dell'incontro
avuto alla Locanda di San Gimignano e del conseguente desiderio di realizzare
un grande dipinto sul tema della Natività. Gli confidò che le sue abituali
visioni iniziavano ad avere contorni più chiari: al centro della scena
il Cristo appena nato era la luce stessa che illuminava l'ambiente e i
personaggi a Lui intorno, il volto della Madonna non aveva orribili sfregi
ma sembianze a lui care e addirittura una notte quel volto alzò gli occhi
e parlò: la luce vitale che andrai a rappresentare un giorno si sporcherà
per mano degli uomini ma non si spengerà mai, rimarrà come una specie
di monito morale e prova lampante della duplice natura umana che è distruttiva,
ma anche amorosamente portata a risanare le piaghe; anche quelle che da
sola si infligge.
L'esecuzione del dipinto iniziò e proseguì con ferma determinazione, le
varie fasi sono descritte mirabilmente da Giulio Mancini nel suo libro
composto intorno al 1620. L'illustre intenditore del tempo cerca di guidarci,
quasi in presa diretta, nei misteri dell'opera: " Gherardo (...) adesso
conduce una Natività di Nostro Signore che le figure gli piglian il lume
da Cristo nato...".
Nella descrizione del dipinto il Mancini si sofferma ad illustrare la
fonte della luce: il bambino deposto sulla paglia illumina la notte
in cui sono immersi i personaggi, riflettendosi sui volti dei due angeli
e della Madonna che scosta il velo dal Bambino, sul quale si china con
affetto e venerazione. E' attraverso lo sguardo adorante della Madonna
che offre Gesù alla vista dell'universo, che noi, spettatori della scena,
comprendiamo la potenza e la bellezza dell'accaduto.
Non è escluso che l'Adorazione dei pastori, questo fu il titolo
dato al dipinto, sia l'ultima opera eseguita a Roma da Gherardo prima
della sua improvvisa partenza per la natia Utrecht. Esiste un carteggio
in cui Piero Guicciardini, nel 1620, dà ordine ai banchieri di provvedere
al saldo del quadro e questa è l'ultima data certa della presenza di Gherardo
a Roma.
Erano passati quasi due secoli dal collocamento dell'opera nella cappella di
Santa Felicita in Firenze quando, nel 1836, l'allora Direttore degli Uffizi
Ramirez di Montalvo iniziò la richiesta di acquisizione alla Galleria
dell'Adorazione dei pastori di Gherado delle Notti. Esiste una documentazione
che certifica i passi compiuti dal Responsabile dell'Amministrazione granducale
presso la famiglia Guicciardini. Dalla metà dell'ottocento il grande quadro
venne trasferito, dietro lauto riconoscimento, alla proprietà pubblica
della Galleria degli Uffizi dove rimase fino al 1993, di fronte alla finestra
che dà su via dei Georgofili,. E' qui, in questa strada, che un disegno
scellerato della mafia portò distruzione, lutto e dolore; il vento furioso
scatenato da un'esplosione s'abbatté sulla grande tela distruggendola
quasi totalmente. Era la notte del 27 Maggio del 1993. Il quadro, la mattina
dopo, fu disteso, con la delicatezza che tocca alle fragili spoglie di
un cadavere e fu immediatamente velinato. Dallo schermo velato trapelavano,
anche se a fatica, forme indistinte e tracce di cromia. Sembrò dovere
morale porre ogni sforzo al recupero di quello che restava per serbare
memoria, per chi verrà dopo di noi, di quei tragici fatti (" quella
luce vitale che andrai a rappresentare un giorno si sporcherà per mano
degli uomini ma non si spengerà mai, rimarrà come una specie di monito
morale e prova lampante della duplice natura umana che è distruttiva,
ma anche amorosamente portata a risanare le piaghe; anche quelle che da
sola si infligge." ).
Nei giorni e nei mesi che seguirono, restauratori di differenti generazioni
misero mano ai lavori per il recupero del dipinto danneggiato. Una volta
intravista la possibilità d'un recupero, anche se parziale, fu unanime
l'avviso che la sua futura collocazione non avrebbe potuto essere che
nel luogo suo originario: la cappella maggiore di Santa Felicita ( "Ogni
opra ha i'su loco, e ogni homo i'su fato"), dove a volerla fu Piero
Guicciardini che dette credito ad un giovane pittore olandese che fece
delle sue visioni un capolavoro profetico e un pensiero d'amore.
Questo è uno dei tanti racconti che fanno parte del mito della Locanda così come
fu raccontato alla famiglia Viani il giorno dell'acquisto di questa casa
nel 1968. Chi è passato di qui ha lasciato inevitabilmente qualcosa di
sé, così come questo luogo ha talvolta operato piccoli prodigi nella vita
di chi lo ha frequentato. L'idea della Locanda è nata proprio dalla voglia
di continuare la secolare tradizione di questa casa, che ha accolto e
continua ad accogliere con devozione chiunque voglia sostare e approfittare
della quiete di questo angolo di Paradiso.